Coaching tossico: quando la spinta motivazionale diventa una trappola
Viviamo in un mondo che idolatra la motivazione come se fosse la chiave di tutto. Basta volerlo, dicono. Se ti impegni davvero, se spingi abbastanza, se non molli mai, prima o poi ce la farai. E il coaching – o meglio, una certa forma di coaching – ha finito per farsi portavoce di questa narrazione da film americano, dove l’eroe, con le ossa rotte e il sangue alla bocca, continua a combattere e alla fine vince. Ma nella realtà, se lo fai davvero, con le ossa rotte finisci all’ospedale. E molto difficilmente vinci qualcosa.
Il problema non è l’impegno. Il problema è l’ideologia dello sforzo cieco, la glorificazione del “non ci sono scuse”, la spinta continua che non ascolta. Quello che chiamo coaching tossico nasce proprio qui: quando la pressione a “fare di più” soffoca la capacità di sentire. Quando l’urgenza di superarsi cancella la possibilità di conoscersi. Quando l’allenatore (o il coach, o il mentore) diventa un generale, e il coachee un soldato.
Eppure, in origine, il coaching era un’altra cosa. Doveva essere uno spazio di ascolto, di esplorazione, di guida sottile. Un luogo dove chi viene accompagnato potesse ritrovare contatto con sé, non essere spinto fuori da sé.
Ci sono frasi che sembrano motivanti, e invece fanno danni: “Non esistono limiti”, “Chi vuole, può”, “Se non ce la fai è perché non ti impegni abbastanza”. Frasi che ignorano completamente il contesto umano ed emotivo della persona che hai davanti. Che riducono tutto a forza di volontà, a disciplina, a spinta muscolare. E che creano, sotto sotto, senso di colpa, frustrazione e burnout. Perché se non riesco, allora dev’essere colpa mia. Perché se sono stanco, demotivato, confuso, vuol dire che sono debole.
Ma non è così. Anzi, a volte la stanchezza è un segnale sano. La demotivazione è un sintomo utile. L’incapacità di spingere può essere l’inizio di una vera svolta.
Se hai bisogno di “motivarti” ogni giorno per raggiungere un obiettivo, forse quell’obiettivo non ti interessa davvero. O forse ti interessa per ragioni sbagliate: per paura, per confronto, per approvazione. Il vero obiettivo – quello che nasce da dentro – non ha bisogno di essere forzato. Ha bisogno di essere nutrito. E un buon coach lo sa.
Questo non significa giustificare le scuse, né cadere nell’inerzia. L’impegno è fondamentale. La resilienza è preziosa. Ma devono poggiare su un contatto autentico, non su un’ideologia. Il buon senso, l’intelligenza emotiva, la capacità di adattarsi sono qualità molto più potenti di quanto si creda. E spesso, alla lunga, sono proprio queste che fanno la vera differenza.
Un buon coach non ti incita a spingere di più a prescindere. Ti aiuta a capire quando ha senso spingere, e quando invece è il momento di fermarsi, riorientarsi, fare spazio. Ti stimola, sì, ma senza forzarti. Ti accompagna, ma senza tirare. Ti ascolta, ma senza farti affondare nella comoda palude dell’autogiustificazione.
Il coaching, quello vero, è un’arte di equilibrio. Non si tratta di spingere o fermarsi, di vincere o perdere. Si tratta di essere pienamente presenti al proprio processo, e di imparare a distinguere tra la voce che ti sabota… e quella che ti protegge. Tra la stanchezza che ti rallenta… e quella che ti salva.
In fondo, l’obiettivo non è fare di più. È essere di più. E questo, spesso, richiede meno forza… e molta più verità.